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 Paolo Borsellino

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T O P I C    R E V I E W
Zucchetto Posted - 29/09/2007 : 11:39:30



Borsellino: strage di Stato.



Una sola mossa. Durata, forse, una manciata di minuti per far sparire tutto, sino all’ultima traccia, quanto Paolo Borsellino sapeva, aveva capito, cercava disperatamente di provare. Non era infatti sufficiente disintegrare lui, farlo saltare in aria assieme ai ragazzi e ragazze della sua scorta. Era ugualmente e altrettanto necessario trafugare, sottrarre e far sparire l’agenda rossa del giudice Borsellino. Quella annuale dell’Arma dei Carabinieri da cui il magistrato non si separava mai, quella che conteneva tutte le sue annotazioni più riservate, le più importanti, raccolte nei 56 giorni di corsa estenuante che separano Capaci da Via D’Amelio.

Agnese Piraino Leto, la vedova Borsellino, ha spiegato più e più volte agli inquirenti con quanta attenzione il marito si assicurava di portare sempre con sé quell’agenda sulla quale scrisse anche domenica 19 luglio 1992.

La famiglia si trovava nel villino di Villagrazia di Carini dove il giudice, in tempi che non conosceva più, amava rilassarsi e godere dell’affetto di propri cari. Quello era il primo giorno di quasi riposo dalla morte del collega e amico Giovanni Falcone, il suo “scudo umano”. Anche lui dilaniato da una bomba il 23 maggio con la moglie Francesca Morvillo e i ragazzi della scorta. Non era riuscito a dormire però durante il suo consueto sonnellino dopo pranzo, come raccontano i numerosi mozziconi di sigaretta rimasti nel portacenere. Si era solo ritirato nella sua stanza. Chissà quali e quanti pensieri affollavano la sua mente. Forse gli stessi con cui - racconta la moglie - quello stesso giorno riempì, con la fitta e complicata scrittura, le pagine dell’agenda rossa.

Nessuno tra le persone che gli furono più vicine conosce il contenuto di quelle riflessioni. Non le aveva confidate né ai famigliari né ai suoi colleghi più stretti. Forse per proteggerli.

Qualcun altro, invece, se non sapeva esattamente cosa vi era scritto, lo immaginava e non poteva correre il rischio che venisse reso pubblico.

Mentre via D’Amelio bruciava nell’inferno di corpi e lamiere sparpagliati in ogni dove, un uomo emergeva dal fumo, prendeva la valigetta del giudice per poi riposizionarla, poco dopo, sul sedile posteriore della croma. Leggermente annerita la borsa da lavoro del giudice è rimasta pressoché intatta. Dentro vi era tutto, compreso il costume da bagno ancora umido, ma non l’agenda rossa.

Qualcuno sapeva che era lì dentro.

Qualcuno sapeva di doverla far sparire immediatamente.


Su quegli attimi, sulla presenza mai chiarita di personaggi anomali sul luogo della strage, sulla rimozione della borsa e soprattutto sulla sparizione dell’agenda sono concentrati gli inquirenti che ancora oggi, dopo 15 anni, cercano di capire cosa accadde realmente in via D’Amelio. Sì perché, ancora dopo 15 anni, sappiamo che la cupola di Cosa nostra si riunì per deliberare, sappiamo quali mafiosi presero parte al commando che pedinò tutti gli spostamenti del giudice sin dal mattino, conosciamo anche le decine di convergenti ragioni per cui Cosa Nostra voleva chiudere i conti con quel magistrato che, con Giovanni Falcone, aveva seriamente compromesso gli interessi dell’organizzazione. Ma ancora non riusciamo a sapere chi premette il tasto del detonatore per scatenare quegli scenari di guerra, chi era appostato ad osservare il quadro per cogliere il momento giusto, chi ha prelevato dalla borsa l’agenda rossa.

E domanda delle domande: dov’è ora? Esisterà o sarà stata distrutta? Chi l’ha presa? Chi la nasconde? Potrebbe essere un arma di ricatto?

L’inchiesta comincia due anni fa quando gli agenti della Dia fanno irruzione nello studio di un fotografo palermitano, Franco Lannino: cercano una foto di via D’Amelio scattata pochi attimi dopo l’esplosione. Dietro una segnalazione riservata hanno saputo che sono in molti a cercarla. Anche i mafiosi, attraverso i propri avvocati.

L’immagine ritrae carcasse e rottami avvolti nel fuoco e nelle fiamme e un uomo che tiene in mano la borsa del giudice appena ucciso.

Gli investigatori effettuano la stessa operazione anche presso altri studi fotografici e presso la redazione della Rai e di altre emittenti private.

Si rimonta così la sequenza filmata.

Giovanni Arcangioli, allora capitano dei carabinieri, è la sagoma che, ripresa dalle telecamere televisive, si allontana da via D’Amelio con la valigetta del giudice sottobraccio verso via Autonomia Siciliana.

Secondo la ricostruzione questo sarebbe avvenuto verso le 17:30, circa mezz’ora dopo l’esplosione, ma la valigia sarebbe ricomparsa poi nell’auto blindata da dove sarebbe stata prelevata definitivamente verso le 18:00. Questa volta senza l’agenda rossa.

Sentito dai procuratori di Caltanissetta incaricati delle indagini, Arcangioli avrebbe fornito spiegazioni che lasciano però molte perplessità.

In un primo momento l’ufficiale fa i nomi di due magistrati ai quali avrebbe consegnato, senza mai averla aperta, la cartella di Borsellino: Giuseppe Ayala, ex pm del maxi processo, all’epoca dei fatti neodeputato del Partito Repubblicano e Vittorio Teresi oggi sostituto procuratore generale. Quest’ultimo ha negato fortemente un suo qualsiasi coinvolgimento poiché ricorda di essere giunto sul luogo della strage verso le 18:30 e di non aver notato Arcangioli, che conosce bene, a quell’ora e che ancora meno abbia ricevuto una qualche informazione circa la borsa.

Ayala invece, che accorse immediatamente in via d’Amelio poiché abitava molto vicino, ricorda di aver notato la borsa sul sedile posteriore, di averla presa e consegnata ad un carabiniere in divisa. Non se ne poteva occupare personalmente in quanto parlamentare e per questo l’ha affidata ad un funzionario dell’arma.

Arcangioli ha sostenuto la sua versione precisando però, solo successivamente, di aver aperto la borsa con Ayala e di aver constatato, alla sua presenza, che l’agenda non era al suo interno. Ricorda poi di averla data ad un carabiniere di cui non ricorda il nome.

In un confronto piuttosto acceso entrambi sono rimasti fermi sulle proprie posizioni, ma risulta piuttosto rilevante la testimonianza del giornalista Felice Cavallaro, presente sul momento, che ha sostanzialmente confermato la versione di Ayala. L’ex magistrato, a quanto ricorda l’inviato del Corriere, affidò la borsa a due carabinieri, uno in borghese e l’altro in divisa, senza mai aprirla.

Ufficialmente l’inventario circa la cartella di cuoio del magistrato e del suo contenuto viene verbalizzato alle 18:30 e dell’agenda non vi è traccia.

Un altro mistero, un altro spunto nella direzione dei mandanti esterni che hanno condiviso con Cosa Nostra i benefici provenuti dalla scomparsa del magistrato e dei suoi appunti. Che sarebbe già arrivato ad un punto morto se il giudice per le indagini preliminari Ottavio Sferlazza non avesse rigettato la richiesta di archiviazione e disposto ulteriori indagini in merito ai tanti, troppi punti ancora oscuri.


Ripartiamo dalle presenze inspiegate e inquietanti di quel giorno in via D’Amelio, dalle informazioni e dalle contraddizioni raccolte dagli inquirenti in questi anni.

Che Cosa Nostra non abbia agito da sola è ormai ben noto. E’ un leit motiv scritto nella storia del nostro Paese che purtroppo si ripete in quasi tutti gli omicidi cosiddetti eccellenti, spesso risultato di convergenze di interessi e di “ibridi connubi”. La strage Borsellino rispetto a tutte le precedenti presenta però alcune anomalie particolari che portano ad ipotizzare che un altro gruppo, oltre al commando mafioso, fosse presente e possa aver partecipato direttamente all’eccidio.

Fino ad oggi però è stato pressoché impossibile accertarne l’identità. Già i giudici di secondo grado del Borsellino bis ravvisavano, nella motivazione della sentenza che ha condannato all’ergastolo quasi tutto il gotha di Cosa Nostra, carenze investigative non causali.

In effetti depistaggi, impedimenti e provvidenziali trasferimenti ad altri incarichi sono avvenuti non appena le indagini si sono mosse su indizi che rimandano a tutte quelle entità esterne che da sempre hanno stretto relazioni con l’organizzazione mafiosa: la politica, il mondo economico e imprenditoriale, la massoneria e i servizi, che per rispetto agli onesti e alle Istituzioni intendiamo come deviate. Quegli interlocutori presso cui, racconta il collaboratore di giustizia Antonino Giuffré, Bernardo Provenzano ordinò venisse attuato una sorta di sondaggio, per “toccare il polso” e comprendere quali reazioni si sarebbero avute compiendo atti così eclatanti come le stragi, specialmente quella di via D’Amelio.

La fretta con cui fu preparata ed effettuata, a così poco tempo da quella di Capaci, è il primo elemento di grande sorpresa anche per i mafiosi stessi. Ben consci che la sopravvivenza dell’organizzazione è strettamente legata a determinati equilibri che non possono essere più di tanto alterati, pena la sconfitta definitiva.

Sia Riina che Provenzano, tuttavia, in “sede pubblica e privata”, assicurano i loro compari di poter disporre delle garanzie necessarie per far diventare questo passo azzardato il decisivo salto di qualità in termini di nuovi referenti, visto che i precedenti erano usciti di scena, e in termini di appoggi sicuri per le future generazioni di Cosa Nostra.

Forse, a guardare i fatti a posteriori si dovrebbe dire che dell’intero piano era più a conoscenza Provenzano che non Riina, ceduto quasi subito alla giusta gogna pubblica con tutta la sua cordata più violenta. Probabile oggetto di una trattativa molto più ampia di cui si intuiscono i contorni se si ricostruisce quel puzzle di elementi probatori che però, per ora, non sono stati ritenuti sufficientemente convincenti da un punto di vista processuale.

Procediamo con ordine.

Via D’Amelio è una strada chiusa, stretta tra grandi palazzi come quello in cui abitava la madre del giudice che quella domenica lo stava aspettando per andare dal cardiologo. Era domenica e faceva molto caldo. Quando le macchine blindate entrarono nella via il parcheggio era pieno e lo spazio per muoversi velocemente molto poco, come aveva avuto modo di lamentarsi più volte la scorta. Il giudice scese accompagnato dai suoi angeli protettori: Agostino Catalano, Emanuela Loi,Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina; ebbe appena il tempo di annunciarsi al citofono che qualcuno, che evidentemente lo stava osservando, premette il pulsante del detonatore.

Il corteo blindato era stato monitorato fin dal mattino, da quando il giudice appena uscito di casa, in via Cilea, non si era recato in via d’Amelio, come i suoi assassini si aspettavano, ma a Villagrazia. Nonostante il cambio di programma, non vi era stata nessuna alterazione nel piano poiché, raccontano i collaboratori di giustizia (borbisvedi), Salvatore Biondino non aveva alcun dubbio che Borsellino prima o poi sarebbe andato dalla madre.

Un primo dato non trascurabile sul quale torneremo in seguito.

I pentiti che hanno fatto parte del gruppo di osservazione tra cui Salvatore Cancemi e Giovan Battista Ferrante sono stati molto avari di particolari sul momento dell’esecuzione, tanto da essere ritenuti in primo grado reticenti. Se successivamente la testimonianza di Cancemi si è rivelata di grande importanza è risultata volutamente incompleta la testimonianza del Ferrante che aveva il compito di allertare il gruppo di fuoco. Era stato incaricato da Biondino di comporre un numero di cellulare che gli aveva fornito su un foglietto di carta e di avvisare quando Borsellino si sarebbe avvicinato a via D’Amelio. Il collaboratore dichiarò di non conoscere l’identità del suo interlocutore (rivelatosi poi essere Cristoforo Cannella) cui fece due chiamate, la prima dal suo cellulare, comprovata dai tabulati, e la seconda da una cabina telefonica, che però non risulta essere mai arrivata sull’utenza di Cannella.

Chi ha avvisato in realtà Ferrante?

Non lo sappiamo, ma di certo professionisti, addestrati anche per far sparire le tracce più pericolose. Un’eccezione che non si era mai veri****ta nella storia di Cosa Nostra che, come disse il procuratore Pietro Grasso, è stata a volte il braccio violento dello Stato e quindi ha sì agito per conto di altri, ma senza bisogno di aiuti esterni.

Alla strage di via D’Amelio, alla parte esecutiva, partecipano direttamente, i maggiori capi mandamento, primo Biondino che dirige di persona le operazioni, e poi Aglieri e Greco (uomini di Provenzano), Cancemi, Raffaele Ganci e altri.

Salvatore Biondino all’epoca delle stragi era sconosciuto e incensurato. Emerge la centralità della sua figura quando viene arrestato assieme a Salvatore Riina ed è indicato da Salvatore Cancemi come il personaggio che deteneva tutta una serie di rapporti segreti e particolari con gli ambienti più occulti per conto del capo di Cosa Nostra e del suo gemello Provenzano.

Lo conferma il drammatico racconto di Francesco Onorato quando riferisce all’autorità giudiziaria dell’omicidio di Emanuele Piazza, il giovane poliziotto che collaborava alla ricerca dei latitanti con i servizi segreti, strangolato nello scantinato di un mobilificio a Capaci per ordine proprio di Biondino, che, inspiegabilmente, sapeva del suo incarico super riservato.

E’ ancora Biondino, secondo Brusca, a premere perché il nome di Borsellino sia inserito immediatamente dopo quello di Falcone nella lista del pareggio dei conti con nemici e traditori.

Agli indizi provenienti dall’interno all’organizzazione corrispondono quelli raccolti dagli inquirenti che, seppur lasciati ad uno stadio primordiale per via di cause esterne, rappresentano molto più di un’ipotesi sulla presenza di uomini dei servizi sul luogo della strage.

Sentito durante il processo d’appello del Borsellino bis l’allora vicequestore di Palermo Gioacchino Genchi ha spiegato come le sue indagini sulle intercettazioni effettuate sull’utenza della famiglia Borsellino che, in un primo momento, avevano portato alla condanna all’ergastolo di Pietro Scotto, poi annullata a causa della ritrattazione di Scarantino, lo abbiano poi condotto altrove. E più precisamente sul monte Pellegrino, l’altura che domina Palermo dove si erge il suggestivo castello Utveggio che per un periodo avrebbe ospitato il Cerisdi, una scuola d’eccellenza per manager. Un tabulato telefonico aveva registrato in entrata una chiamata effettuata cinque mesi prima della strage da un boss di Bagheria, Gaetano Scaduto condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, indirizzata a quell’utenza.

All’interno del Cerisdi si rivelò poi esserci una postazione di soggetti appartenenti all’Alto Commissario per la lotta alla mafia e poi forse – spiega Genchi - anche al Sisde, al servizio segreto civile. Che per tutta risposta smentì categoricamente l’ipotesi. Tuttavia, non appena avviata l’indagine il misterioso gruppo fece baracca e burattini e fu trasferito così come, alla fine dell’anno, furono destinati ad altri incarichi Genchi e il questore La Barbera.

Non se ne fece più nulla, resta soltanto inequivocabile il fatto che la visuale dal Castello Utveggio su via D’Amelio è impressionante.

Dunque, dopo 15 anni, sappiamo solo da chi era composto il gruppo che sorvegliò gli spostamenti del giudice dalla sua abitazione di via Cilea, mentre non abbiamo idea di chi agì sul campo di guerra e nemmeno, come scrivono i giudici del Borsellino ter: “Chi abbia allestito l’autobomba e l’abbia trasportata, come anche la provenienza dell’esplosivo”.

Per accertare anche questo fondamentale elemento si chiamò in causa persino l’FBI il cui super sofisticato laboratorio scientifico, tuttavia, fu colto da una paradossale mancanza di professionalità. Fu, infatti, aperta un’inchiesta circa le analisi sugli esplosivi che sarebbero state condotte maldestramente.

Su un punto però gli esperti italiani e quelli statunitensi concordano, nell’esplosivo vi era la presenza del Semtex sulla cui provenienza di origine militare non v’è dubbio così come è noto che il plastico era nella disponibilità dei killer di Cosa Nostra.



Recentemente l’autorità giudiziaria si è concentrata su un altro dei grandi misteri che ruota attorno alla strage di via D’Amelio.

Nella confusione degli attimi immediatamente dopo la deflagrazione sono stati notati aggirarsi tra le macerie uomini indicati come in qualche modo legati ai servizi o la cui apparizione in quei luoghi quel giorno è comunque risultata quanto meno singolare.

Si è appena concluso con un’assoluzione il processo per falsa testimonianza resa al pubblico ministero a carico di Roberto Di Legami, all’epoca dei fatti funzionario di polizia addetto alla Squadra Mobile di Palermo impegnata nelle indagini sulla strage di Capaci.

Secondo la testimonianza di due colleghi, Umberto Sinico e Raffaele del Sole, al tempo capitani del Ros, l’ufficiale, durante una cena a pochi giorni di distanza dalla strage

(circa una decina) avrebbe rivelato di aver saputo che poco dopo l’esplosione alcuni agenti accorsi sul luogo avrebbero notato Bruno Contrada, al tempo il numero tre del Sisde e che la relazione di servizio riguardo questa circostanza sarebbe stata poi distrutta.

Di Legami ha negato con fermezza di aver mai riferito un’informazione di questo genere ed è rimasto sulle sue posizioni anche durante il confronto, piuttosto teso, con i due colleghi. Secondo il giudice Paola Proto Pisani che ha ricostruito la sequenza di quegli eventi nella sentenza assolutoria appare più credibile la versione del Di Legami che non quella del principale testimone dell’accusa, Sinico. Questi infatti, pur ritenendo il fatto in se stesso poco credibile, dopo averlo riferito all’autorità giudiziaria, non ha voluto rendere noto il nome della sua fonte. Ha spiegato di aver ricevuto raccomandazioni a riguardo dalla stessa che a sua volta temeva per l’incolumità della fonte originaria.

A fare per primo il nome di Di Legami fu il tenente Canale, stretto collaboratore di Borsellino, ma in seguito processato e assolto per concorso esterno in associazione mafiosa. Disse di aver saputo questa notizia da Sinico, compresa la fonte.

Sinico ha smentito di aver mai rivelato il nome del Di Legami ad alcuno, benché, invece, abbia riferito il contenuto della confidenza sia ad alcuni colleghi, tra cui Canale, e ad alcuni magistrati come il dott. Ingroia e il dott. De Francisci. Tuttavia mentre Canale sostiene di aver ricevuto questa confidenza nei giorni immediatamente successivi alla strage, addirittura prima dei funerali, il colloquio con Di Legami cui fa riferimento Sinico, confermato da Del Sole, sarebbe avvenuto, questo sì secondo tutti e tre, a una decina di giorni dell’eccidio.

Tuttavia Sinico, se in un primo momento nega che la sua fonte sia Di Legami, in un memoriale del 1998, lo ammette adducendo come motivazione del suo silenzio il vincolo di segretezza che vige automaticamente tra colleghi e amici quando si parla di indagini in corso. Ha inoltre aggiunto di aver cercato più volte di contattare il Di Legami per chiedergli di scioglierlo da questo patto di riservatezza che lo metteva in una situazione di imbarazzo con i magistrati, ma che dapprima avrebbe ricevuto un diniego, sempre per tutelare la fonte originaria e poi che il collega non si sarebbe più fatto trovare.

Ecco qui un altro conto, l’ennesimo, che non torna. Il giudice, riordinando tutti i dati, ritiene possibile che Sinico abbia davvero ricevuto la notizia, ma non da Di Legami e che pur di proteggere la sua reale fonte, abbia sacri****to l’amico sfruttando la via suggerita da Canale il quale, magari convinto della opportunità di perseguire i filone di indagini, abbia indicato un nome plausibile al fine di costringere Sinico a rivelare la vera fonte.

A suffragio di tale ipotesi il giudice considera signi****tivo il dialogo avvenuto tra Sinico e Canale, ignari di essere registrati, mentre attendevano di essere sottoposti a confronto dai magistrati di Caltanissetta. Canale invita il collega a rivelare l’identità della sua fonte se vuole salvare il suo amico (Di Legami) di cui ha fatto il nome pur nutrendo il serio dubbio che sia lui (“ce l’ho sulla coscienza”) e senza termini lo incita: “Umbé ma picchì un ciù dici cu cazzu è?”.

Di Contrada sul luogo della strage si è parlato a lungo, ma il suo alibi, secondo cui sarebbe stato in barca con amici ha sempre retto a qualsiasi investigazione. (telef contrada)

Se nessuno degli ufficiali e degli agenti in servizio quel giorno vide Contrada è vero che furono notate invece altre figure come Mannino Salvatore segnalato dall’ispettore Angelo che compilò immediatamente una relazione di servizio e su questo fu sentito dalla procura di Caltanissetta. La presenza di Mannino colpì particolarmente Angelo e il suo superiore dott. Montalbano poiché questi era un ispettore in servizio al Commissariato di San Lorenzo fino a poco tempo prima e di recente trasferito a Firenze poiché una nota del Sisde lo descriveva come in pericolo di vita perché minacciato dall’organizzazione mafiosa. Tuttavia solo un paio di anni prima Montalbano aveva raccolto alcune confidenze su Mannino che gli avevano fatto dubitare della sua integrità e per questo aveva fatto rapporto alla Procura di Palermo.

Insomma dopo tanti anni si è costretti a ritornare sulla scena del delitto, sperando che vi sia tornato anche l’assassino e abbia lasciato quella traccia che nel momento dello sgomento è stata tralasciata, oppure nascosta, o depistata o fatta sparire.

Le immagini di quei momenti terribili potrebbero contenere un elemento di risposta o indicare finalmente la pista giusta da imboccare. Per questo il giudice Sferlazza nel suo rifiuto di archiviazione chiede che si esamino nuovamente e si ricostruiscano prima di tutto i movimenti di Arcangioli e anche quelli di un’alra persona che si muove al suo fianco e sembra prenderlo sotto braccio, stando a quanto riportato in una relazione Dia, e quindi della cartella di Borsellino con l’agenda rossa.

E poi chi ha mentito tra Sinico, Del Sole, Di Legami e Canale?

Il nome di Contrada, già fortemente compromesso per la sua vicenda giudiziaria conclusasi con la condanna definitiva, è forse una copertura per qualcun altro?

Gli inquirenti ancora proseguono in questa indagine infinita che sembra costituita da scatole cinesi altrettanto infinite che sfociano in tutti gli ambiti senza però giungere a smascherare tutti gli altri colpevoli oltre ai sicari di Cosa Nostra.

Però su tutto questo panorama di misteri e di presunti equivoci si leva prepotente una domanda ancora più inquietante: perché?

Se è vero, come suggeriscono i documenti, che uomini di apparati deviati hanno partecipato a questa strage ci dobbiamo chiedere perché si sono disturbati tanto per un uomo solo. Chi era o poteva diventare Paolo Borsellino? Cosa aveva capito? Cosa sapeva? Cosa aveva scoperto?

Nel loro bellissimo libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino” Peppino Lo Bianco e Sandra Rizza hanno ripercorso, tramite l’agenda grigia di Paolo Borsellino, di cui vi mostriamo qualche immagine, gli ultimi giorni e gli ultimi appuntamenti, gli ultimi incontri proprio per capire cosa indusse Cosa Nostra e i suoi complici a determinarne l’eliminazione immediata. Qual è il movente detonatore della strage di Via D’Amelio?

In occasione del 15°anniversario è andato in onda, la mattina prestissimo, su Rainews 24 un servizio in cui si mostravano le immagini del funerale e la testimonianza di un giovane poliziotto che riferiva di un incontro avvenuto “venerdì” (presumibilmente il 17.7) tra Borsellino e i vertici della polizia per discutere la proposta avanzata da dieci agenti specializzati di scortare il giudice in quel momento fortemente esposto. L’intervistatore domanda poi al prefetto Parisi, allora capo della polizia (deceduto il 31 dicembre 2004), il riscontro a queste affermazioni. Questi conferma di aver visto il giudice ma di aver parlato di tutt’altro.

Che Borsellino quel giorno fosse a Roma non vi è dubbio poiché è segnato nella sua agenda di lavoro con tutti gli impegni della giornata e le spese sostenute quel giorno. Era lì per sentire Mutolo, il collaboratore che aveva chiesto di parlare esclusivamente con lui, dal quale aveva appreso notizie gravissime circa la presunta collusione di Contrada e del giudice Signorino con ambienti mafiosi. Il giudice ne era rimasto colpito, ma probabilmente non fu per questa ragione che confidò sconvolto a sua moglie: “sto vedendo la mafia in diretta”.

Scorrendo le pagine della sua agenda si legge che dal 1° luglio fino alla sua morte il giudice si spostò diverse volte a Roma. Incontrò Parisi anche il primo giorno del mese, come ha scritto, e il ministro Mancino che invece ha sempre sostenuto di non ricordare l’episodio.

Nel diario c’è però la conferma autografa a quanto sostenuto da Mutolo secondo cui durante il colloquio con il giudice nel quale gli aveva accennato quelle rivelazioni così scottanti, Borsellino venne convocato dal Ministro che si insediava proprio quel giorno. Tornò da quell’incontro così stravolto da non accorgersi che aveva acceso due sigarette, poiché, afferma ancora il pentito, il magistrato si era trovato davanti agli occhi Contrada che usciva dall’ufficio di Parisi mentre lui entrava.

Era sufficiente per turbare a tal punto un uomo come Borsellino? O c’è dell’altro? Cosa si disse con il ministro smemorato?

Giovanni Brusca e Antonino Giuffré, tra i più importanti collaboratori in assoluto sostengono che in qualche modo a Riina e a Provenzano era giunta voce che Paolo Borsellino stava diventando sempre più un pericoloso ostacolo sulla via della riconquista degli equilibri necessari alla sopravvivenza dell’organizzazione.

Brusca, il primo a chiarire gli intenti della trattativa, cioè l’accordo per ottenere benefici carcerari in cambio della cessazione della violenza, ha una teoria tra le più plausibili: “Borsellino probabilmente è stato ucciso come una conseguenza della trattativa. Mi spiego meglio. Una volta che Riina stava trattando con esponenti delle istituzioni e, principalmente, voleva ottenere la revisione del maxiprocesso, il dottor Borsellino avrebbe seriamente costituito un serio ostacolo lungo tale strada in quanto, in caso di esito favorevole, si sarebbe opposto con tutte le sue forze”.

E’ questa la mafia in diretta? E’ per la trattativa e per quel gioco grande che per eliminare Paolo Borsellino e prima di lui Giovanni Falcone entrano in scena anche uomini dei servizi segreti quali esecutori? E allora quanto in alto sono i mandanti?

Per questo alla moglie Agnese il giudice Borsellino aveva detto: “Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”?

Dopo circa 7 anni la nostra redazione ha cercato di ricostruire i fatti di quegli anni nel tentativo di pervenire ad una conclusione che fosse plausibile, ed è questo che vi esponiamo qui di seguito.

E’ come avere davanti tante tessere sparpagliate che se riesci ad accorpare danno vita al mosaico della verità. Proviamo ad elencarle velocemente consigliandovi, se non avete avuto modo di seguirci finora, di approfondire i vari punti negli articoli che abbiamo pubblicato in passato.

Abbiamo detto che:

A compiere la strage fu indubbiamente Cosa Nostra, ma in più di un documento processuale, si afferma che non fu sola nell’ideazione, nella progettazione e persino nell’esecuzione dell’eccidio.

A piani****rla, su ordine di Riina ma anche e soprattutto di Provenzano, è Salvatore Biondino, l’incensurato che deteneva rapporti di altissimo livello, anche con i servizi, per conto dei corleonesi.

Salvatore Cancemi ci dice che un noto avvocato palermitano gli confidò che Provenzano era in contatto con i servizi segreti.

Antonino Giuffré spiega che la richiesta di eliminare Giovanni Falcone e per conseguenza logica anche Borsellino era giunta in Sicilia anche dagli Stati Uniti dove le indagini del pool avevano provocato non poche conseguenze gravi per l’organizzazione oltreoceano.

Giulio Andreotti, nel momento in cui si dà avvio all’inchiesta nei suoi confronti (conclusasi con un’assoluzione per prescrizione fino agli anni Ottanta), in un’intervista a Rai Uno indica quali mandanti del suo processo gli ambienti Usa. In particolare sostiene che siano stati delatori americani a suggerire a Buscetta di fare il suo nome ed evoca la “manina” dei servizi segreti in collaborazione con la Cosa Nostra americana e addirittura del governo statunitense.

Giovanni Brusca ha spiegato che tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio viene avviata una trattativa tra mafia e Stato. I giudici del processo di Firenze sulle bombe in continente esprimono tutta la loro disapprovazione nei confronti dell’allora colonnello Mori e del capitano De Donno per averla condotta legittimando così quella efferata metodologia. Ma chi diede veramente l’ordine di trattare?

L’ex capo della polizia, il prefetto De Gennaro, nella relazione della Dia, redatta immediatamente dopo le stragi ’92-‘93, parlò chiaramente di un disegno eversivo attuato con le bombe mafiose che coinvolgeva massoneria, servizi deviati, finanza, alta imprenditoria. Dopo quella parentesi il prefetto non disse più nulla, forse oggi, dopo tutti questi anni si sarà fatto un’idea più precisa. Ci piacerebbe davvero sapere quale sia il suo pensiero in merito.

Nell’intervista rilasciata da Paolo Borsellino ai giornalisti francesi che gli chiedevano dei rapporti tra Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri, il magistrato spiega come fosse naturale per i mafiosi cercare contatti con imprenditori influenti e facoltosi per poter investire le grosse cifre di denaro provenienti dal traffico di droga. Dopo la strage di Capaci, Borsellino riprende le carte dell’operazione San Valentino e cerca i mandanti dell’omicidio del suo amico anche nella direzione della grossa imprenditoria, della grande finanza e degli appalti multimiliardari sia in Sicilia che nel nord del Paese.

Nel 1993 l’imprenditore Raul Gradini si suicida. Emergerà in seguito dalle indagini che la sua azienda, la Calcestruzzi, era fortemente compromessa, in Sicilia, tramite l’ingegner Bini, con la famiglia mafiosa dei Buscemi, prestanome di Riina.

Le bombe stragiste che proseguono nel 1993 a Firenze, Milano e Roma contribuiscono, assieme al terremoto istituzionale causato da Tangentopoli, al passaggio dalla cosiddetta Prima Repubblica alla seconda.

Borsellino aveva probabilmente intuito cosa stava accadendo, aveva compreso che era in corso un forzato cambio di assetti di potere nel nostro Paese in cui Cosa nostra, con la violenza, aveva un ruolo primario che le sarebbe valso nuovi equilibri. Per questo esclama: “Sto vedendo la mafia in diretta!”

Per questo sa benissimo di avere pochissimo tempo per scampare alla morte. Sa di essere un elemento di disturbo.

Per questo la sua improvvida candidatura a procuratore nazionale antimafia dichiarata dai ministri Scotti e Martelli rappresenta un’esposizione drammatica che Borsellino capisce immediatamente. “Questo vuol dire mettere l’osso davanti ai cani”.

Ricapitolando: nel bienno ’92-’93 ha inizio nel nostro Paese un processo di rinnovamento del sistema di potere vigente anche su forte pressione oltreatlantica. L’Italia sull’orlo della bancarotta lotta per rimanere all’interno della Comunità europea. Può farlo solamente se applica le nuove regole imposte dalle grandi multinazionali, dalle banche e dalla grande finanza nazionale e internazionale cui la politica è, da anni, evidentemente assoggettata.

L’intervento della mafia è indispensabile per scatenare questo processo che si impone a chi detiene il potere. Senza se e senza ma.

La presenza dei servizi segreti si spiega dunque logicamente osservando quanto di recente accaduto in Iraq, in Afghanistan e con gli ultimi scandali. I servizi segreti del nostro paese hanno sempre agito su ordine della Cia, del potere atlantico.

Solo alcuni uomini dello Stato, cioè delle Istituzioni non contaminate, potevano rappresentare un ostacolo a questo progetto. Tra i quali: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Gian Carlo Caselli.

I primi due eliminati con la violenza delle bombe eversive, l’ultimo con la violenza della delegittimazione eversiva culminata con l’unico precedente della storia di legge contra personam.

Lo dimostrano le indagini che intraprese il suo pool. L’inchiesta Sistemi Criminali è di fatto l’eredita di Falcone e Borsellino. Si è salvato Caselli per il gran fragore di popolo che lo ha sempre sostenuto e fino al 1995-1996 anche la politica dei vari governi che si sono succeduti.

La legge creata appositamente per non farlo concorrere al posto di Procuratore Nazionale Antimafia è stata approvata su pressione di poteri forti, gli stessi che siedono nei gangli vitali del nostro paese: politica, imprenditoria, finanza e anche potere religioso. Gli stessi: i mandanti esterni della strage di Via D’Amelio.


Di Giorgio Bongiovanni





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